Silvia Loreggian racconta la sua versione della spedizione italiana CAI sul K2 per il settantesimo anniversario della prima ascensione Silvia Loreggian racconta la sua versione della spedizione italiana CAI sul K2 per il settantesimo anniversario della prima ascensione

K2, l’America di Silvia Loreggian

L’alpinista veneta ci racconta la sua esperienza durante la spedizione appena conclusasi, organizzata per celebrare i 70 anni dalla conquista italiana della seconda vetta più alta del mondo
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“Cercherò, mi sono sempre detto cercherò”.
Sembra quasi di sentirle, le note di America, mentre riecheggiano fra gli spazi del Dome, la tenda comune dove i membri dell’ultima spedizione organizzata dal CAI al K2 ingannavano il tempo in attesa della cena: raccontandosi, leggendo, scrivendo oppure, per l’appunto, ascoltando musica.

«È proprio allora che ho scoperto questa canzone della Nannini – racconta Silvia Loreggian – e da quel momento non sono più riuscita a togliermela dalla testa, almeno per parecchi giorni».

Classe 1990, Silvia è un alpinista e guida alpina di origine padovana, trapiantata a Chamonix – dove convive con il compagno Stefano Ragazzo, anche lui guida alpina – ormai da qualche anno.

Ma la Loreggian è anche una delle quattro alpiniste scelte quest’anno dal CAI per un’avventura senza precedenti: l’ascesa al K2 da parte di una cordata tutta al femminile, formata da quattro donne italiane e quattro pakistane, a 70 anni esatti dalla prima conquista – tutta italiana – della seconda vetta più alta del pianeta. Un progetto fortemente voluto dal Club Alpino Italiano, patrocinato dal Ministero del Turismo e dal Ministero degli Esteri, e che insieme alla Loreggian vedeva schierate in prima linea anche la valdostana Anna Torretta e le piemontesi Federica Mingolla e Cristina Piolini.

«Sono stata coinvolta più o meno a settembre dello scorso anno da parte di Agostino Da Polenza, organizzatore tecnico della spedizione, – spiega Loreggian – che mi ha invitato a prendervi parte in modo del tutto inaspettato, anche e soprattutto dal punto di vista dei miei interessi e delle mie priorità alpinistiche. Non avevo mai pensato in modo concreto di fare una spedizione sugli Ottomila: finora mi è sempre piaciuto molto di più arrampicare e dunque praticare un alpinismo più tecnico a quote decisamente più basse. Inoltre, la salita di questo Ottomila in particolare, lungo la sua via normale, si configura a mio avviso come un altro tipo di alpinismo ancora: si tratta di un itinerario attrezzato con delle corde fisse, dove dal punto di vista tecnico azzeri quelle che sono le difficoltà maggiori. Però è pur sempre la seconda montagna del mondo per altezza: se proprio avessi voluto cominciare ad affrontare gli Ottomila non so se avrei mai pensato di farlo con il K2. Per questi motivi, in un primo momento, ho avuto qualche titubanza, prendendomi alcune settimane di tempo per riflettere».

Camino Bill con Tommaso e Matteo- Foto @SilvialoreggianCamino Bill con Tommaso e Matteo- Foto @Silvialoreggian
Federica Mingolla e Silvia Loreggian al Campo 1- Foto @SilvialoreggianFederica Mingolla e Silvia Loreggian al Campo 1- Foto @Silvialoreggian
L'incredibile visuale del ghiacciaio del Baltoro da Campo 2 - Foto @SilvialoreggianL'incredibile visuale del ghiacciaio del Baltoro da Campo 2 - Foto @Silvialoreggian

Che cosa ti ha fatto poi prendere la decisione definitiva di partecipare alla spedizione?

«Mi sono resa conto dell’enorme opportunità che avrei potuto avere grazie ad una spedizione tanto grande e che altrimenti, muovendomi autonomamente, non avrei avuto né a livello economico e neppure dal punto di vista del tempo a disposizione. Dunque ho abbracciato l’idea e mi sono preparata a vivere una serie di mesi in funzione della spedizione, iniziando a prepararmi già verso fine dicembre per un progetto che si è poi concluso appena una settimana fa».

Durante la preparazione hai avuto modo di conoscere le tue compagne?

«Sì, prima di partire per la spedizione abbiamo cercato di vivere alcune esperienze di allenamento insieme, compatibilmente con gli impegni di ognuna, proprio per iniziare ad instaurare un rapporto un pochino più stretto e conoscerci un po’ meglio. Purtroppo con Cristina non abbiamo mai trovato la “chiave” per legare, mentre con Federica e Anna il rapporto è cresciuto sin da subito, in modo positivo.

Mi sono trovata veramente molto bene: ho conosciuto due persone valide ma soprattutto due amiche con cui è stato davvero arricchente vivere quest’esperienza. Con Cristina nessuna di noi è riuscita ad entrare in relazione ed è stata una sorpresa (in senso negativo) scoprire a spedizione conclusa quanti rancori abbia serbato nei nostri confronti, e non solo, durante la spedizione senza mai esternare. Al rientro, ha divulgato informazioni false e fuorvianti rispetto a quanto accaduto al campo base e sul K2 durante la spedizione e non ne capisco veramente il motivo».

Parlando invece della tua esperienza, quale sono state le prime sensazioni che hanno accompagnato te?

«Il ghiacciaio del Baltoro è la prima cosa che suscita meraviglia. Per raggiungere il K2 occorre attraversarlo totalmente ed è un ghiacciaio davvero enorme: 120 km da percorrere in 7 giorni. Ero partita con molta reverenza, per i motivi che ho detto prima, ma mi ricordo che, nel momento in cui ho iniziato a camminare, il fatto di aver cominciato veramente il gioco ha azzerato di colpo tutti i timori che provavo prima.

Mi sono lasciata coinvolgere, entrando in sintonia con l’ambiente che mi circondava. Al terzo giorno di trekking ho iniziato ad ammirare, tutt’intorno a me, delle opportunità incredibili per l’arrampicata: penso non esista un’area al mondo con così tante pareti bellissime, concentrate nella stessa zona. Ho passato giornate di pura estasi, pensando di dover trascorrere lì almeno il resto della vita. Continuando nella camminata, iniziano a comparire poi i primi Settemila ed infine gli Ottomila. Essere circondata dai giganti del mondo è stato determinante nel farmi sentire motivata una volta arrivata al campo base.

Il nostro gruppo di partenza era di 22 persone, senza contare tutto il team dell’agenzia a cui ci siamo appoggiati per fare il trekking e i quattro portatori pakistani che ci hanno aiutati durante l’intera spedizione: una volta finito il trekking, ci abbiamo messo alcune giornate ad organizzare il campo e montare le tende».

Fra queste, la preziosa tenda medica.

«Esattamente, alla presenza di una dottoressa che doveva svolgere la propria ricerca, nell’ambito della nostra spedizione, sull’adattamento alla quota del corpo femminile. È stato uno strumento prezioso, come dicevi tu, perché avere il supporto medico ci ha aiutato fin da subito durante le rotazioni di acclimatamento: ovvero andare in quota, passarci delle ore, tornare al campo base per recuperare qualche giorno e ripetere il tutto alzando ogni volta i metri raggiunti e il tempo trascorso. La prima rotazione l’abbiamo fatta tutte assieme, poi di fatto si è rivelato impossibile essere allineate gli stessi giorni sulle stesse quote».

Eppure qualcuna con cui sei entrata subito in sintonia c’era.

«Sì. Fin da subito io e Federica (Mingolla, ndr) ci siamo trovate sulla stessa lunghezza d’onda. A noi si sono poi aggiunti Marco Majori e Federico Secchi, con il diverso progetto di sciare il K2 dopo aver fatto il Broad Peak. L’idea dell’acclimatarsi è quella di esasperare il tuo corpo finché te lo consente, testandone il limite. Avere il supporto medico, come detto, ci aiutava: avevamo sempre con noi un saturimetro per controllare il livello di ossigenazione del sangue e, una volta rientrati al campo base, facevamo dei test medici di base, tra cui anche l’ecocardiogramma per verificare sempre che non fossimo incorse in problemi e che reagissimo bene all’acclimatamento».

Cosa che purtroppo, nel caso delle altre quattro alpiniste pakistane, non è avvenuta.

«Con loro ci sono state alcune problematiche legate alla preparazione fisica e tecnica, per questo non hanno risposto molto bene all’acclimatamento: si sono trovate a dover gestire battiti altissimi per tanti giorni, una saturazione non recuperata completamente e parametri con corretti che, ad una quota di 5.000 metri, compromettevano la successiva salita».

Avvicinamento al Campo Base del K2 - Foto @SilvialoreggianAvvicinamento al Campo Base del K2 - Foto @Silvialoreggian
Federica, Marco e Federico sul camino Bill per raggiungere campo 2 - Foto @SilvialoreggianFederica, Marco e Federico sul camino Bill per raggiungere campo 2 - Foto @Silvialoreggian
Uno dei momenti di meteo difficile e malessere in salita verso Campo 2 - Foto @SilvialoreggianUno dei momenti di meteo difficile e malessere in salita verso Campo 2 - Foto @Silvialoreggian

Un freno molto fastidioso è stato inoltre quello del maltempo.

«Dal 28 giugno, giorno del nostro arrivo al campo base, le cattive condizioni meteo hanno continuato ad imperare durante tutta la spedizione. Aspettavamo con trepidazione la finestra e c’è stato un momento in cui tutte le spedizioni del campo base erano concordi nella lettura delle previsioni meteo e nel dire che il 28 o il 29 luglio erano i giorni ideali per andare in vetta al K2.

Siamo partiti praticamente tutti, chi un po’ prima e chi un po’ dopo, a seconda della propria strategia o dei propri ritmi, per tentare di essere in vetta in uno di quei due giorni. In quel frangente abbiamo compiuto qualche errore. Io e Federica eravamo riuscite a fare l’ultima rotazione di acclimatamento toccando i 7.000 metri, che già comunque sono troppo pochi per un tentativo diretto agli 8.600 senza ossigeno, ma il meteo non ci ha permesso di far di più prima. Inoltre abbiamo “preso” quei 7.000 soltanto due giorni prima di quando poi, rientrati al campo base, si è delineata la finestra di bel tempo di cui dicevo, entro cui concretizzare il tentativo, che di fatto era dunque troppo vicina alla nostra ultima rotazione di acclimatamento».

Avete comunque tentato il tutto e per tutto.

«Assolutamente. Anche se nei due soli giorni trascorsi al campo base il nostro corpo probabilmente non aveva fatto in tempo a recuperare bene. Per questo motivo abbiamo voluto partire non la mattina del terzo giorno ma la sera, prendendoci un altro giorno tranquillo e riducendo le ore di riposo ai campi.

Così però abbiamo stressato oltre misura il nostro corpo, coprendo 2.400 metri di dislivello in meno di 24 ore, fermandoci due ore in un campo a dormire e altre due in un altro. E alla fine il nostro fisico non è stato in grado di reggere questo sforzo a queste quote e il mal di stomaco ci ha costrette a fermarci».

Qual è stato il momento in cui avete compreso che era meglio gettare la spugna?

«A mano a mano che salivamo aumentava soprattutto il nostro mal di stomaco e questo costringeva l’intero corpo a sforzi sovrumani: ci si stringeva l’esofago, l’ossigeno non circolava più bene nemmeno nelle gambe e di conseguenza anche nella testa, costringendoci ad una perdita di lucidità non pericolosa ma comunque presente. Abbiamo raggiunto il campo 3 a 7.400 metri e, passata quella notte, personalmente mi sono svegliata con un po’ di ottimismo.

Un ottimismo che invece aveva già abbandonato Federica. Dunque ho provato a partire da sola, ma si è ripresentato istantaneamente lo stesso problema del giorno prima. A quote così alte, se accusi un problema, è difficile risolverlo e portare il corpo a sentirsi meglio: le cose potevano solo peggiorare. Dunque sono tornata al campo 3 da Federica, abbiamo riposato ancora un po’ e poi abbiamo scelto di fare dietrofront, un’operazione che fisicamente ha continuato a costarci una fatica molto grande».

Silvia Loreggian al Campo BaseSilvia Loreggian al Campo Base

Tirando le somme della tua esperienza, pensi che questo possa essere un nuovo inizio per te? Tornerai su qualche Ottomila?

«Onestamente, una volta rientrate al campo base, pensavo di no. Provavo quasi disgusto per quella montagna e per quel tipo di alpinismo. Ma soprattutto per il modo in cui la presenza umana, in quegli ambienti, ne rovina veramente l’essenza. Il caldo aumentava la puzza dei nostri rifiuti organici e la domanda che mi continuava a tintinnare nella testa era una soltanto: cosa stiamo facendo a questa montagna?

Già solo l’indomani, però, quando ho aperto la mia tenda, ho visto la cima del K2 stampata nel cielo, lì di fronte, e mi è venuta una voglia assurda di riprovarci. Ma proprio subito: volevo restare qualche giorno in più per ritentare il push, ma eravamo già oltre la data del rientro e Agostino Da Polenza mi ha detto che non era possibile perché giustamente la spedizione non era la Mia spedizione ma quella del Club Alpino Italiano. Pensare ora di ricominciare tutta la preparazione e risoffrire tutto l’acclimatamento mi scoraggerebbe un po’, soprattutto perché, come ho detto in precedenza, non è questo il mio tipo di alpinismo prediletto.

Ma ho provato una cosa nuova, non sono riuscita a portarla a termine ma ho capito che ho le capacità per farla e ho anche imparato quali sono i modi migliori per farlo. Dunque è un’opzione che rimane lì, sospesa. Un incompiuto con cui magari, prima o poi, farò di nuovo i conti».

Per concludere, hai un’immagine che riassume questi giorni di spedizione e quello che hanno significato per te?

«Se devo pensare ad un’immagine davvero significativa mi viene in mente la tenda comune che avevamo installato al campo base, con tanto di stufetta nel mezzo e materassoni in terra. È un’immagine che riassume quello che ho amato di più in questa spedizione: i miei compagni e la naturalezza con cui tutti si sono messi in gioco, creando dinamiche di relazione molto belle, rafforzate anche dall’assenza di una connessione internet. I legami che si sono creati li rivedo fisicamente nella serenità che si respirava proprio in questa tenda, dove passavamo il tempo aspettando la cena in cerchio e raccontandoci aneddoti, leggendo, scrivendo o anche solo ascoltando della musica»

Montaggio della tenda Dome al campo base - Foto @SilvialoreggianMontaggio della tenda Dome al campo base - Foto @Silvialoreggian

E a proposito di musica: qual era la canzone che andava per la maggiore?

«Lì al campo base ho scoperto America di Gianna Nannini e da quel momento non sono più riuscita a togliermela dalla testa, almeno per parecchi giorni».

“Troverai, mi hanno sempre detto troverai”. Sembra quasi di sentirle, le note di America, mentre riecheggiano fra le vette più alte del mondo. E sicuramente Silvia Loreggian qualcosa, in questa spedizione, l’ha trovata: non la cima del K2, ma la vetta di una tenda al campo base e dei legami speciali che essa simboleggia, decisamente più alti di 8.600 metri.
E di ogni ulteriore polemica.


Silvia Loreggian è un atleta sponsorizzato da ELBEC che collabora da anni con la nostra azienda per aiutarci a testare e migliorare i nostri prodotti.
Sul nostro blog trovi anche Kalypso Rock con l'ntervista a Stefano Ragazzo e Silvia Loreggian al rientro dal Nepal dopo l'apertura di una via di misto sull'inviolata Sato Pyramide nel 2023


Autore
Monica Malfatti
Monica Malfatti
Scrittrice e giornalista
Nata nel 1996 a Trento, ama la montagna per osmosi e scrivere da quando ne è capace. Laureata in Filosofia e linguaggi della modernità, lavora da freelance nell'ambito della comunicazione, collaborando con diverse testate giornalistiche, occupandosi di vari uffici stampa e pubblicando alcuni libri. L'ultimo, una biografia dell'arrampicatore belga Claudio Barbier, uscirà a breve per Versante Sud. Dal 2022 è addetta stampa per il Soccorso Alpino e Speleologico Trentino. Dal 2023, Accompagnatrice di Media Montagna.
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