Un incidente a 15 anni con il motorino, il braccio sinistro praticamente “andato” e la vita messa in stand by per altrettante primavere. «Poi, a trent’anni, guardai per caso un film in tv e le mie gambe hanno improvvisamente percepito l’atavico desiderio di muoversi, di fare qualcosa, di andare». Daniele Matterazzo, 33enne residente a Legnaro, in provincia di Padova, racconta così l’inizio del suo cammino. Anzi, dei suoi tanti cammini e di un futuro che – almeno negli intenti – vuole ancora costellarsi di chilometri, sentieri e strade. L’ultima, in ordine di tempo, quella che attraversa l’Islanda a piedi da nord a sud, partendo da Akureyri e arrivando a Skogar: 450 chilometri in totale autonomia, con 15 giorni di cibo e attrezzatura stipati in uno zaino che, almeno all’inizio, pesava ben 27 kg, «quasi la metà della mia sessantina» ride Daniele.
«È la parola più giusta. Anche perché ciò che a me, come persona e nella quotidianità, aiuta tantissimo in questi cammini è il fatto di sfidarmi in cose che normalmente, nella vita di tutti i giorni, non accadono mai. Si è obbligati ad una sorta di reazione, che sviluppa il nostro spirito di adattamento e di autoconservazione, facendo emergere lungo la strada tratti della nostra personalità che nemmeno conosciamo. Mi piace andarci da solo proprio per lavorare su questa dimensione qui: banalmente, su me stesso»
«Sì, quest’ultima mia avventura è nata dopo aver concluso il cammino dello scorso anno nella Lapponia svedese. Da quando ho iniziato a fare questo genere di cose, cerco sempre di aggiungere un tassello in più ogni volta. In questo caso volevo raggiungere una difficoltà maggiore, qualcosa di più selvaggio: durante le mie ricerche ho trovato questa traversata dell’Islanda a piedi e ne sono rimasto davvero conquistato. A differenza dei cammini precedenti, lì abbondavano gli spazi aperti e deserti: era proprio il tipo di avventura che stavo cercando. Parallelamente avevo conosciuto Simone, atleta paralimpico quasi totalmente cieco per via di una retinite pigmentosa. Il nostro primo incontro risale al gennaio di quest’anno: scoprii una persona deliziosa, veramente simile a me per desideri, motivazioni e background generale. Iniziammo a pianificare insieme il viaggio e nell’idea originale io avrei dovuto essere i suoi occhi e lui il mio braccio: il messaggio sarebbe stato quello di mettere insieme le rispettive disabilità per trovare una forza che ci unisse entrambi. Io avrei aiutato lui nell’orientamento, ad esempio, mentre lui avrebbe aiutato me agevolandomi in qualche attività quotidiana dove due braccia sono meglio che una sola, ad esempio nel montaggio di una tenda. Alla fine purtroppo i nostri tempi e i rispettivi impegni non hanno coinciso: lui non poteva liberarsi quando c’ero io e viceversa. Così abbiamo entrambi fatto la stessa traversata, ma ad una settimana l’uno dall’altro: ci siamo sentiti comunque uniti, anche se in reciproca rincorsa»
«È una domanda legittima. Anche a livello meramente turistico, spesso le offerte dedicate ai disabili sono diverse rispetto a quelle riservate ai normodotati: il rischio generale è di separare in misura ancora maggiore le persone, creando un nuovo tipo di ghettizzazione. In un mondo ideale, invece, nello stesso gruppo di persone che frequenta la montagna è possibile trovare disabili e normodotati, che magari cooperano a vicenda per riuscire nell’escursione o nel tipo di attività che hanno scelto di intraprendere. Quindi ti risponderei di no: accessibilità ed inclusione non fanno sempre il paio purtroppo. Siamo sulla strada giusta, ma c’è ancora molto da lavorare»
«Assolutamente. È importante evidenziare che ogni persona, disabile o no, deve sentirsi libera di poter cercare e trovare, nella vita, ciò di cui ha reale bisogno e necessità. Non c’è spazio per sensi di colpa o eroismi di sorta. Nel mio specifico caso, mi sono reso conto di aver bisogno di un bel po’ di legnate: di sfidare cioè le mie stesse capacità, se non i miei limiti. Ma di farlo anche con una certa gradualità, senza strapazzarmi e senza fomentare narrazioni altisonanti: non a caso ho cominciato nel 2020 con il cammino di Santiago, decisamente meno impegnativo di ciò che faccio ora. Ricordo anche però che per ben 15 anni, dopo l’incidente, non ho avuto alcuna reazione positiva per uscire dal guscio di autocommiserazione che m’ero costruito attorno. Non riuscivo a reagire, finché non sono incappato quasi per caso in un film documentario che mi ha svoltato l’esistenza: “The Way – Il cammino per Santiago”»
«Da tempo cercavo un cambiamento dentro di me e da quel film ho sentito come una chiamata per trasformare la mia vita e la mia routine in meglio. Quella notte non riuscii a dormire, tanto era grande il desiderio di riscatto che cominciava ad animarmi»
«Un’esperienza che mi ha regalato tantissimo, soprattutto un’autostima che davo ormai per dispersa. Quel viaggio è stata la mia cura, la terapia di cui avevo bisogno. Fu così che nell’agosto del 2021 mi posi un nuovo traguardo, la via Francigena. Ma stavolta sentivo di dover usare il cammino come forma di aiuto verso il prossimo. Ho pensato al mio passato. Ho ripensato all’incidente e a quanto l’ospedale aveva fatto per me, negli otto mesi che vi avevo trascorso, fra rianimazione e chirurgia plastica. Capii che ero finalmente nella posizione di poter fare qualcosa di importante: restituire. Fu il primo viaggio attraverso il quale raccolsi fondi per l’ospedale pediatrico di Padova, dov’ero stato ricoverato 16 anni prima»
«Esatto. L’anno scorso ho “usato” il mio cammino nella Lapponia svedese per raccogliere fondi da destinare a NoisyVision, un’associazione che utilizza i trekking come una sorta di empowerment destinato a persone con disabilità sensoriali, spingendole a ripristinare fiducia in se stessi grazie ad attività che da soli non farebbero mai. A maggio di quest’anno invece ho intrapreso il mio primo cicloviaggio fra Parigi e Padova, stavolta sempre per raccogliere fondi in favore del reparto pediatrico all’ospedale di Padova»
«Mi piacerebbe, come dicevo, aggiungere un coefficiente di difficoltà sempre maggiore. Già nel deserto lavico dell’Islanda, a causa dei venti fortissimi, che fischiavano fino ai 50 km orari, ho fatto una fatica immane anche soltanto nel montare la tenda con il mio unico braccio superstite. Eppure è stato tanto sfidante quanto meraviglioso e vorrei continuare su questa linea: ambienti estremi e condizioni proibitive. Da qui a cinque anni mi piacerebbe cominciare ad intraprendere alcuni cammini polari, di cui mi affascina la grandissima capacità di concentrazione e dedizione che occorre mantenere. Mettermi alla prova in questo modo è ciò che più mi fa bene, nonostante l’enorme freddo che sicuramente mi troverei a patire»
«Sicuramente con i prodotti di Elbec, che mi sostiene da ben tre anni, non avrò alcun problema! Già in Islanda la lana merinos dei prodotti Elbec ha contribuito non soltanto al mantenimento della temperatura corporea ma direi anche, di conseguenza, al buon successo dell’intera spedizione»
«Del berretto più caldo di ELBEC, il caldissimo SPIKE, foderato all’interno con tessuto merino e provvisto anche di efficacissimi paraorecchie. È pesante e adatto a temperature rigide, ma è anche molto comodo e facile da portare sotto il cappuccio. Poi ovviamente le calze che per una spedizione come questa dovevano essere calze calde e antivescica come il modello Ice Climbing della linea Tech. ».
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