Corpo proteso in avanti, passo alternato cadenzato da un lento respirare e quello slancio di braccia apertissime, quasi a voler emulare il "Superman" che di lì a poco sarebbe diventato per davvero. Ripescare le immagini del fiemmazzo Franco Nones che, numero 26 al petto, stravinse alle Olimpiadi di Grenoble nel 1968, aprendo la strada ad un movimento nazionale di fondisti o appassionati tali, significa rendersi conto di quanto il mondo dello sci di fondo sia profondamente cambiato.
Perché per Runar Mathisen – vincitore della 51esima Marcialonga che in questo reportage vogliamo raccontarvi – gareggiare nello stile di Nones sarebbe oggi, e semplicemente, pura follia.
Nel 2024, 56 anni dopo Grenoble, l’alternato rimane infatti appannaggio di pochi nostalgici, sicuramente non dei campioni. Si spinge, nel 2024, con entrambe le braccia contemporaneamente e un parallelo piegamento in avanti del busto. Si sfrutta l’inerzia della scivolata, massimizzando la velocità degli sci e l’energia della spinta in modo da utilizzare meno forza e fare meno fatica. Ma se, come nel caso di Mathisen, la forza è tanta e brutale, grazie ad una possente costituzione fisica e all’altrettanto incisivo allenamento (non necessariamente in quest’ordine), la velocità triplica comunque.
Ecco spiegato il motivo per cui l’alternato ha ceduto il proprio passo alla spinta, in una rivoluzione che possiamo paragonare a quella di Fosbury per il salto in alto.
E, esattamente come nel salto in alto, agli inizi di questo sport, procedere marciando prima con una gamba e poi con l’altra era tanto naturale quanto tuffarsi su un materasso, offrendo la pancia e non dandogli la schiena.
Ci vuole dunque ingegno e un pizzico di artificialità per cambiare le cose e renderle più performanti.
Ingegno e un pizzico di artificialità, ma non troppa.
Perché occorre anche rendersi conto di tutte quelle cose che non possiamo invece modificare. Di tutti quei cambiamenti che non abbiamo scelto noi, magari non direttamente, e dunque impostici dagli altri o dall’ambiente che ci circonda. E l’ambiente che ci circonda sta inevitabilmente soffrendo.
La storia della 51esima Marcialonga di Fiemme e di Fassa non è dunque, o non soltanto, la storia dello sci di fondo, ma anche di una neve che non c’è più e di ciò che inevitabilmente questo sta a significare, nell’ambito di un qualsiasi sport invernale. È la storia, per converso, di due valli che resistono impavide, dimostrando un coinvolgimento duraturo e trascinante, frutto di un’organizzazione impeccabile. È una storia che si tramanda di generazione in generazione, ma è anche la storia di quattro persone comuni, che questa storia la immaginavano soltanto, seduti nella sala d’attesa di un aeroporto svedese.
Mario Cristofolini è un medico, primario di dermatologia all’ospedale Santa Chiara di Trento dal 1968 al 1999 e presidente del comparto provinciale di Lilt, Lega italiana per la lotta ai tumori. Durante le prime edizioni di Marcialonga, in collaborazione con il reparto di cardiologia dello stesso ospedale in cui operava, sperimentò, primo al mondo, la nuova tecnica di tele-elettrocardiogramma applicata ad atleti durante le competizioni.
È inoltre, o lo è stato, un discreto fondista, tant’è che nel 1970 partì per la Svezia insieme ad altri tre amici per partecipare alla Vasaloppet, tutt’ora la più antica gara di sci nordico al mondo.
«Sull’aereo che ci riportava in Italia – racconta Cristofolini – si parlò di come anche il Trentino potesse essere in grado di ospitare una competizione simile. Con me, insieme a Roberto Moggio e Giulio Giovannini, vi era anche Nele Zorzi, che propose la sua nativa val di Fiemme e la vicina val di Fassa come luogo prediletto per un esperimento del genere».
Un esperimento che funzionò.
Le iscrizioni alla prima edizione, targata 1971, furono infatti numerosissime: sui 70 km e 1.000 metri di dislivello del percorso erano attese poche centinaia di persone, ma ne arrivarono più di mille.
Pionieri furono dunque quei quattro amici che ebbero l’idea originale, ma è innegabile come la proposta si sia innestata su un terreno fertile e pronto a scommettere in un’iniziativa innovativa ma dalle indefesse radici locali. Di qui, il coinvolgimento sempre consistente di volontari si configura come un importante volano per la riuscita dell’evento, ma anche come un modo per valorizzare la disponibilità a collaborare di moltissime persone.
«Non si dimentichi poi – prosegue Cristofolini – che in questo 2024 il capoluogo trentino è stato insignito del titolo di Capitale europea del volontariato. Manifestazioni come la Marcialonga dimostrano quanto questo atteggiamento di solidarietà, fra tifosi ed atleti ma pure fra due valli limitrofe e complementari anche se spesso contrapposte, sia quasi innato per noi, al netto delle necessarie evoluzioni che anche Marcialonga ha dovuto affrontare nel tempo».
Evoluzione organizzativa, con uno staff sempre più strutturato ed infine professionalizzato, senza per questo poter fare a meno dei volontari. Evoluzione di offerta, con una nuova articolazione di Marcialonga lungo tutto l’arco dell’anno, grazie a due nuovi eventi come Marcialonga Running e Marcialonga Cycling, uno in autunno e l’altro in primavera. Infine, evoluzione nello stile, con il ritorno nel 2003 alla tecnica classica, dopo che per qualche anno si era deciso di far gareggiare gli atleti in tecnica libera, il cosiddetto “pattinato”.
«Mamma mia, che fatica! Sono arrivata a Cavalese senza forze, ho tolto gli sci e ricordo di aver detto a papà “Non la farò mai più!”. Poi un mese dopo, il primo giorno di apertura delle iscrizioni, ero già lì, pronta per l’edizione successiva».
Parole di Nathalie Zancanella, Soreghina 2024. Ovvero madrina e ambasciatrice della Marcialonga, eletta ogni anno durante una serata in cui concorrono le ragazze di Fiemme e Fassa che rispondono ad alcune caratteristiche ben precise: devono essere sportive, attive nel sociale, legate al territorio ma al contempo culturalmente aperte. Uno dei pochi “concorsi di bellezza” superstiti dove i valori più positivi che una giovane donna può portare con sé trovano ancora degna gratificazione.
La stessa gratificazione che, all’arrivo, attende anche l’ultimo classificato. Allo scoccare delle 18.30 infatti – tempo massimo per completare il percorso – l’atleta che transita per ultimo sulla linea del traguardo viene incoronato con l’alloro del vincitore e festeggiato con uno spettacolo pirotecnico, a sancire la fine della manifestazione.
Anche MiniMarcialonga, la gara del sabato dedicata ai bambini, riserva un premio speciale all’ultimo classificato, segno di come – più che una competizione – la Marcialonga sia veramente una grande festa, per tutti. Così come per tutti è il tracciato di gara, a disposizione degli sciatori che vogliono provarlo, durante l’intera stagione invernale. Opzione resa possibile dal potenziamento della pista ciclabile che collega le due valli, avvenuto negli ultimi anni, e che ha permesso di trasformare il tracciato in quello che dicevamo: un vero e proprio centro del fondo, neve permettendo.
Ecco dunque una delle criticità forse più evidenti di tutte: non è semplice garantire l’innevamento di un tracciato molto lungo, che si snoda in ambienti differenti e in condizioni molto diverse. Nei primi anni della manifestazione bastavano pochi centimetri di neve, che erano garantiti facilmente dalle precipitazioni naturali o dal trasporto da altri siti di montagna.
Oggi invece anche il mantenimento della pista per poche settimane necessita di un costo davvero elevato, con impegni ambientali e di spesa non indifferenti. Il percorso di Marcialonga ha infatti bisogno di oltre 70/80.000 metri cubi di neve, e per produrne soltanto 2 si stima vengano utilizzati circa 1.000 litri d’acqua. Uno “scherzo” che costa complessivamente 200.000 euro, ma che viene ammortizzato dal giro d’affari della manifestazione: circa 8 milioni di euro spesi da partecipanti, accompagnatori e spettatori.
Il costo ambientale, tuttavia, resta. Ed è stimato, secondo i calcoli fatti qui sopra, in 35 milioni di litri d’acqua. Un costo reso ancora più imponente se pensiamo come le due manifestazioni sciistiche ospitate in questi luoghi – Marcialonga e Tour de Ski – siano ben poca cosa, se paragonate all’impegno che attende Fiemme e Fassa nel 2026: le famigerate Olimpiadi di Milano-Cortina.
Sono due gli “spot” del percorso Marcialonga che toccano altrettante località protagoniste dei prossimi Giochi olimpici: lo Stadio del salto a Predazzo (sede organizzativa, fra l’altro, proprio di Marcialonga) e lo Stadio del fondo a Lago di Tesero, in cui si sono disputati i Campionati del mondo nel 1991, 2003 e 2013, oltre che numerose gare di Coppa del mondo e combinata nordica.
Prima di arrivarvi, tuttavia, sono necessari 54 chilometri di fatica, ma anzitutto di pazienza. Già dopo la partenza e la conseguente emozione condivisa insieme ad una folla di speranzosi “bisonti” – desiderosi di arrivare ma già oltremodo felici di partire – l’attraversamento di Moena richiede molta calma. Effetti imbuto dovuti sia alla foga che alla lentezza rendono insidiosa la discesa verso Soraga, fra mucchi di neve “spazzata” dai molti passaggi e tratti più veloci e ghiacciati.
Quest’anno il manto, ovviamente artificiale, era comunque perfetto e il plauso va certo ad un’organizzazione ormai rodata e preparata ad ogni situazione, più o meno favorevole che sia.
Attraversato l’abitato di Soraga, inizia la salita in località Ciarlonch, nel comune di Sen Jan di Fassa, chiamata poco simpaticamente Spacagiames, termine ladino che significa “spezza-gambe”, come già l’8% di pendenza media non fatica a suggerire.
Le urla dei tifosi e lo scricchiolare dei nostri sci sulla neve fanno il paio con un suono meno rassicurante: un’ambulanza, poco più avanti, soccorre infatti Hermann Frantisek, sciatore originario della Repubblica Ceca impegnato a gareggiare insieme al figlio. Colto da un malore nei pressi di Campitello, è stato prontamente soccorso, ma purtroppo senza esito. Lo scoprirò soltanto all’arrivo.
Proseguendo verso Canazei, le difficoltà residue sono minime e il giro di boa è festeggiato da tantissimi sostenitori lungo la pista e dal tifo delle “faceres”, le tipiche maschere del carnevale ladino. Dopo 19 chilometri di salite più o meno costanti è tempo di scendere verso la bassa val di Fassa, dove la scorrevolezza degli sci diventa fondamentale per guadagnare velocità e recuperare parte delle energie spese in salita. Alcuni tratti sono insidiosi, come in prossimità di Mazzin, e il percorso prosegue a fianco del bosco, lungo il torrente Avisio.
A Pozza di Fassa il ristoro rappresenta un vero unicum: la pista transita, infatti, all’interno di un tendone. Ci si può rifocillare dunque con più tranquillità e relativamente al caldo, mentre a Soraga ci aspetta già una salita denominata non a caso “L’infinita”, capace di spezzare la tregua del percorso sempre più scorrevole che pareva attenderci. La pendenza sfiora il 10%, per uno sviluppo di un chilometro circa, preludio dell’epico finale, fra altri 35 km. Il ri-attraversamento di Moena segna infatti la metà del percorso e, subito fuori dall’abitato, il ristoro curato dal gruppo degli Alpini ci accoglie con musica, sorrisi, pacche sulle spalle e una buona dose di tè caldo. Generi di conforto davvero fondamentali per poter raggiungere lo stadio del Salto di Predazzo e la piazza del paese, dov’è posto l’arrivo di Marcialonga Light, la sorella minore di “soli” 45 km.
Dopo essere transitati allo Stadio del fondo di Lago, citato prima, quello verso Molina di Fiemme si rivela presto il tratto più impegnativo a livello mentale. Di fianco ci sfilano i concorrenti che hanno già affrontato quei chilometri e che sono sulla via del ritorno, verso l’imbocco della salita finale. Toccherà presto anche a noi, ma è un “presto” che sembra durare in eterno. Al 68esimo chilometro inizia infatti la sfacchinata finale, o colpo di grazia che dir si voglia: 2 km con pendenza media del 9% e punti che toccano addirittura il 20%, per giungere al rettilineo finale di Cavalese. Un centinaio di metri che valgono tutte le emozioni e le lacrime, sui visi di molti. Ma soprattutto i 17 anni in cui la sottoscritta non ha più sciato, nonostante da piccola andassi matta per questo sport.
È buffo. Ricordo come ho cominciato – osservando, in groppa alla mia slitta, i fondisti che si allenavano e desiderando provarci anch’io – ma non ricordo come ho smesso. Probabilmente mi resi conto di non essere così capace come in altri ambiti della vita – o in uno soltanto, scrivere. Probabilmente mi resi conto di non conoscere altri bambini interessati come me a quella strana fatica, il che mi rendeva ancora più sola di quanto già non fossi. E probabilmente, per un motivo o per l’altro, mi persuasi che non ne valesse la pena. Che enorme spreco! Eppure oggi, dopo aver portato a compimento senza particolari onori la “granfondo più bella del mondo”, mi rendo conto di quanto ogni nostra scelta incida sul futuro in maniera spettacolare. Se non fossi stata una bambina insicura e facile alla resa, non sarei diventata una donna testarda e tenace. In poche parole, non avrei ripreso in mano gli sci stretti con la stessa caparbietà di questi due mesi. Tradotto: arrendersi oggi non significa continuare a farlo per tutta la vita, talvolta vuol dire invece imparare a non farlo più.
Capire quando fermarsi, quando un territorio non può dare di più, quando quel pizzico di artificialità richiesta dal nostro ingegno adattivo diventa troppa ed insostenibile, è il primo passo per diventare, un domani, migliori. Al di là di ogni cliché, è innegabile come senza neve programmata la Marcialonga non si possa fare.
Attorno a noi, gli alberi erano spogli, i tetti delle case asciutti e le cime del Catinaccio quasi più rosee che in estate. E in quegli anni in cui realizzare questo tradizionale sogno diventa davvero troppo oneroso, in termini sociali, ambientali ed economici, sapersi fermare è forse una virtù. Per quanto spezzi il cuore, intendiamoci. Così come alla me bambina spezzò il cuore scegliere di non sciare più. Ma, come scriveva Ermes Ronchi, abbiamo sempre la possibilità di ricominciare, «nuovi inizi sono possibili e non c’è niente di definitivamente perduto. Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare».
E di trovare, come Fosbury, inediti modi per continuare a saltare in alto.
n.d.r. Nella foto di copertina Franco Nones alle Olimpiadi di Grenoble nel 1968 (libera da credits)
n.d.r. Nella foto Monica Malfatti indossa una fascia invernale in lana merinos realizzata a mano - modello BIG BAND
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