Le Alpi Retiche, fatta eccezione del Bernina, sono costituite da montagne che aspirano ai 4000, senza mai raggiungerli. Sono montagne poco blasonate, severe, accessibili da ghiacciai che solo ad attraversarli si rischia di precipitare al centro della terra e la cui roccia spesso si tiene insieme solo grazie ad uno soffio di ghiaccio, che quando si scioglie - come si dice a Roma - so’ cazzi. Il Monte Disgrazia è una di queste montagne, e se consideriamo l’alpinismo ortodosso quello che si fa in fila come per ricevere l’ostia sulla traccia battuta verso il Breithorn occidentale, quello che si fa su queste montagne è quello che mi piace definire “alpinismo e-retico”. A me - con tutta onestà - questo tipo di alpinismo, fatto di ravanate con ramponi e piccozza, piace solo se fatto come antipasto di una scorpacciata di arrampicata con le scarpette o di una bella discesa con gli sci. Ma visto che ormai va tanto di moda l’aperi-cena, spiluccare invece di mangiare, ho deciso che era giunta l’ora di provare a vedere come era salire queste montagne con picca e ramponi, per il gusto di farlo.
Spoiler alert:
questa abbuffata di alpinismo mi ha riempito che nemmeno due cucchiai belli pieni di Brioschi sono serviti a qualcosa.
Facciamo un passo indietro però, a quando ancora non avevo idea di cosa significava salire una cresta di (fritto) misto (giuro che poi la smetto di fare allusioni gastronomiche), a quando non sapevo cosa mi aspettava.
Era il primo weekend di luglio, e con Banana e il Pakistano avevamo deciso di salire il sopracitato Monte Disgrazia, che non si chiama così perché vi succedono brutte cose ma perché in dialetto si chiama “Des’giaça”, ovvero “Disghiaccia”, dalla cresta nord-est meglio conosciuta come “Corda Molla”. Quando vivevo in Valmasino lo vedevo lì il Disgrazia, bianco anche in agosto, immerso nelle nuvole, incazzato e decisamente poco invitante. Eppure in cuor mio sapevo che prima o poi lo avrei voluto salire.
Poi è arrivato, prima del previsto, il 2 luglio, anzi il 3 perché un giorno è di avvicinamento. Venerdì e sabato, perché nel pomeriggio di sabato entrava brutto tempo.
Si, perché comunque solo arrivare al bivacco Oggioni sono 1500 metri di dislivello, un botto di chilometri ed è dato PD+. Mentre salivo mi domandavo se avessi potuto portare il cane Ombra fino al bivacco, così tanto per pensare a qualcosa, e la risposta è stato un perentorio “no”. Comunque anche se si cammina tanto per arrivare al bivacco, la valle che si attraversa, e soprattuto il sentiero glaciologico che si prende dal Rifugio Ventina, è veramente di una bellezza disarmante. Disarmante e drammatica, se si leggono con attenzione i cartelli che segnano il ritiro del ghiacciaio.
Dopo una lunga giornata siamo arrivati al bivacco al tramonto, con noi un altro gruppo di alpinisti, anche loro per fare la Corda Molla il giorno seguente. Abbiamo incontrato una coppia che tornava indietro, e menomale, perché già così il bivacco era troppo pieno di umanità.
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Prima di chiuderci dentro a scioglier neve ci siamo fermati un attimo a vedere il sole sparire fra guglie e nuvole; la nord - ripida e innevata - davanti a noi, un mare di ghiaccio grigio e aperto propio lì sotto. Siamo arrivati tardi, abbiamo mangiato poco, dormito ancora meno.
La sveglia è suonata alle 3 mi sembra, comunque troppo presto. Ci siamo preparati nel buio e siamo partiti ad attaccare la via - che è proprio di fronte al bivacco - nella luce delle nostre frontali. Quando è arrivata l’alba ero già troppo stanca per godermi le cime accarezzate dalle prime luci del giorno. Abbiamo scalato tutto il tempo con guanti e ramponi, io in mezzo, Banana o il Pakistano ad aprire e chiudere la cordata. Man mano che le ore passavano dentro di me si faceva spazio la convinzione che questo tipo di alpinismo non fa per me. I ramponi che stridono sulla roccia, la roccia segnata dal passaggio di centinaia di alpinisti, leva la picca - prendi la picca, procedi in sincrono con i tuoi compagni che sennò caschi di sotto e ti trascini pure loro, parla poco, bevi poco, mangia, se ci riesci. 6 o 7 ore così. Poi la tanto agognata vetta, che arrivata al bivacco Rauzi non me ne importava più nulla di raggiungere. Lacrime salate, girarsi e guardare la cavalcata che si ha appena fatto e pensare “wow, guarda da dove siamo saliti!”, poi sbrigarsi, perché sta arrivando il brutto e ci aspettano 10 calate e 1500 metri di discesa su neve marcia e, se piove, anche bagnata. Menomale che però hai le calze termiche Elbec, che almeno i piedi restano asciutti.
Il problema, il vero problema, è che anche se questo alpinismo non fa per me, tutto questo soffrire, arrancare, abbuffarsi fino a star male - in fondo, ma nemmeno così in fondo - a me piace.
AD+, III+, 50°
2150m D+
Materiale da ascensione su misto, un solo chiodo in via, corda da 60m.
Alpi eRetiche, Lombardia
Una delle più belle creste delle Alpi. Da fare, quando si ha fame.
Eva Toschi
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