Mi era stato detto che con l’età sarei diventato più malleabile, avrei messo i piedi per terra e smesso con le pericolosissime vie alpinistiche a favore delle sicure vie a spit su roccia solida e piacevole. Avrei messo su famiglia e l’avrei fatta finita con tutte queste stupidaggini sull’alpinismo. Invece oggi sono più incazzato, determinato e ambizioso che mai. Negli anni ho abbracciato totalmente l’alpinismo estremo, in realtà chiamare la mia attività così non mi piace, ma siccome mi serve una definizione che faccia capire chiaramente di cosa sto parlando, ho optato per questa. L’alpinismo estremo richiede di uscire fuori dagli schemi, dal classico, retorico e nauseante modo di andare in montagna. Un esempio? Arrampicare in pieno inverno no stop giorno e notte, quando con la pesante attrezzatura da bivacco volutamente lasciata a casa, restare vivi è possibile solo grazie al costante movimento, fermarsi nel cuore della notte significherebbe morire congelati in poco tempo. Ecco, in tale attività non c’è spazio per la poesia, per il bello, il piacere di scalare o danzare sulla roccia, l’alpinismo estremo è solo una fottuta lotta per la sopravvivenza. Non c’è neanche nulla di nobile, l’alpinismo eroico è morto e sepolto da decenni. Infine, la lunga lista di amici e compagni di cordata morti mi fa cancellare ogni residua idea di romanticismo.
Durante l’estate mi ero riposato e rilassato, lontano dalla montagna. Dopo aver passato un’intera stagione dove tutto ciò che avevo attorno mi avrebbe ucciso di lì a breve, avevo bisogno di staccare. Quattro dure nuove vie di misto, un paio di ripetizioni impegnative e altrettanti tentativi non andati a buon fine mi avevano stremato e allo stesso tempo appagato … potevo godermi il riposo. Non ho avuto rimpianti o tentazioni, le montagne nella versione estiva non fanno per me. Nude, senza il loro mantello di neve e ghiaccio, perdono gran parte del loro fascino.
Ad agosto ho ricominciato ad allenarmi per essere di nuovo in forma all’arrivo del freddo. Sessione dopo sessione, la debolezza e la pigrizia lasciavano spazio a forza e motivazione. Déjà-vu. La mia vita forse è meno varia di quanto io stesso immagini. Allenamenti, montagne e una nuova donna, variazioni sul tema di un film sempre uguale da otto anni a questa parte. Sono così monotematico che forse un giorno finirò per stufarmi, ma per il momento non ci penso nemmeno. Déjà-vu, le giornate si accorciavano, una fredda brezza da nord spazzava via la calura estiva. La montagna chiamava, impossibile resistere e con Silvestro Franchini ci fiondammo immediatamente sulla Parete Nord del Grand Pielier d’Angle in Monte Bianco. Era un postaccio, attorno avevamo crepacci e seracchi enormi e sopra il naso si ergeva una lucida parete di ghiaccio. Errore, non ero ancora abbastanza allenato, ma quando me ne accorsi, eravamo già a metà via. Troppo tardi, la ritirata era impossibile. Lentamente ci trascinammo fuori da quel posto, fino in cima al Monte Bianco e poi giù a Chamounix. Durante la discesa incrociammo il nostro amico Corrado Pesce, chiacchierammo piacevolmente e purtroppo fu l’ultima volta, Korrà morirà a febbraio sul Cerro Torre.
Un mese e mezzo (di duri allenamenti) dopo, andava già meglio e ormai la stagione era entrata nel vivo: a fine novembre con Rolando Varesco decidemmo di ripetere un paio di goulotte sulla Roccia Nera (4.075 m). A dicembre invece notai una vaga e magra colata bianca al centro della parete nord della Cima Busazza(3.325 m), ben visibile dal Passo del Tonale. Dopo svariati giorni passati a sciare lì di fronte, non mi restava altro che metterci il naso e scoprire cosa aveva da donare. Il 17 dicembre con Matteo Faletti e Francesco “Franz” Nardelli ci incamminammo, con gli sci ai piedi, alle cinque del mattino, sotto la luna piena. Franz è la versione gradevole e socialmente un po’ più adattata di me. Lui ha studiato, si preoccupa di costruirsi un futuro e si impegna seriamente ad avere una relazione sentimentale duratura e continuativa. Io non ho mai fatto nulla di tutto ciò nella mia vita. Forse la differenza tra me e lui è racchiusa nei gusti musicali, il suo panorama è estremamente vario, dal Punk, ai vari generi di Rock, al Blues, al Reggaeton, al Pop, alla Goa e altra elettronica, il mio invece è totalmente monotematico, ho orecchie in grado di accogliere con piacere solo le melodie della musica Trance e quasi nient’altro. Franz poi è anche un bel furbetto, dietro la sua faccia d’angelo nasconde abilmente il suo cinismo. Con Matteo invece non ci vedavamo dall’apertura di Pazzione Primavernale sulla Cima Tosa (1.000 m, M7 e AI6), ero felicissimo di tornare a scalare con lui. La magia che avevamo vissuto insieme a Santi Padros aprendo quella via, era ancora fortemente impressa dentro di me. Mi chiedo spesso se e quando riuscirò a riviverla un’altra volta. Con Matteo ho una grande sintonia in montagna, ad esempio condividiamo l’idea di proteggerci sempre molto bene quando scaliamo. Difatti, anche questa volta eravamo perfettamente d'accordo nel cacciare negli zaini una doppia serie completa di friends più le misure micro, due mazzette abbondanti di nuts e una quindicina di chiodi da roccia, al quale naturalmente si aggiunge tutto il materiale da ghiaccio.
Negli anni ho imparato che per certe salite è indispensabile avere materiale affidabile e, crepi l’avarizia. Mi viene da ridere quando vedo gli arrampicatori fighetti vestiti all’ultima moda dalla testa ai piedi e con addosso attrezzatura scintillante, in quanto mai “sollecitata” per davvero. Quando fai alpinismo estremo, molto materiale che al climber medio dura anni, se non una vita, dopo una sola via è da buttare, completamente distrutto. I costosi pantaloni e le giacche impermeabili si strappano indipendentemente dalla ditta produttrice e al rientro a casa quasi sempre finiscono nel bidone della spazzatura. Le corde si tagliano sugli affilati bordi del granito e a fine via sono da buttare, sperando sempre che reggano per davvero fino in cima. Dunque ero felice di vedere che per questa via potevamo contare su delle mezze corde nuove di zecca comprate da Matteo.
Dopo quattro ore di avvicinamento con gli sci, iniziai a scalare. Ero partito bene, ma già alla seconda lunghezza arrivarono i problemi. Dalla sosta guardavo in su chiedendomi se saremo stati in grado di scalare ciò che avevamo di fronte, sembrava veramente tosto. Il bianco che a tratti smaltava il granito lungo un’evidente serie di fessure, non era ghiaccio come speravamo, ma neve inconsistente. Amara sorpresa, ma un po’ lo avevamo messo in conto. Se si vuole veramente una salita, bisogna saper lottare e soffrire per ottenerla. Una volta in parete, eravamo disposti a darci dentro, quante ore sarebbe stato necessario, il trascorrere del giorno e della notte non avevano nessuna importanza. Fin quando fosse stato possibile scalare e proteggerci, avremo proseguito verso l’alto.
Ero impegnato in una lotta per nulla piacevole. Il terreno verticale sommato alla neve, rendeva tutto tremendamente aleatorio. Mi stavo tirando su senza mai sapere cosa stessero davvero agganciando le mie picche e pregavo ad ogni passo che la neve non mi crollasse sotto i piedi. Centimetro dopo centimetro completai il tiro e attrezzai una sosta. Matteo passò avanti e ci mise oltre un’ora per salire altri trenta complessi metri. Impiegò poi circa lo stesso tempo ad attrezzare una sosta composta da 5-6 punti di ancoraggio. Adoro scalare con Matteo, è davvero un tipo tosto, capace di aprire tiri veramente duri e al limite, è semplicemente uno dei climber più dotati che conosca su quel tipo di terreno. Quando Franz ed io lo raggiungemmo in sosta, eravamo appesi nel vuoto, la verticalità era totale. Potevo vedere il punto in cui avevamo cominciato a scalare esattamente sotto di noi. Ero sbalordito da quanto fosse a goccia d’acqua la linea che stavamo salendo. Dopo un altro tiro severo in cui Matteo diede ancora una volta il meglio di sé, tornai da primo. Sarebbe stato il turno di Franz, ma aveva rotto proprio il giorno prima con la sua ragazza e ci disse di non essere nello stato mentale adatto per affrontare da primo una scalata così impegnativa. Ad ogni modo, la sua presenza fu fondamentale, i tiri del capocordata duravano svariate ore e poter dividere con un vero amico il tempo in sosta era di enorme valore.
Ormai il sole stava tramontando e avevamo salito solo quattro tiri. Adesso una crosta finissima di ghiaccio misto a neve ricopriva omogeneamente una liscia placca di granito, questa volta nessuna fessura in vista. Traversai molto delicatamente verso sinistra. I ramponi stridevano sulla roccia e le picche rimbalzavano ai tentativi di piantarle nel ghiaccio sottile. Il tiro era terrorizzante, ma nulla rispetto a quello successivo, ancora più verticale e ancora meno proteggibile. Dalla padella alla brace, ormai era notte fonda e l’aria attorno a me aveva l’odore della paura. Raggiunta la sosta però ci eravamo finalmente lasciati le maggiori difficoltà alle spalle, la parete diventava meno verticale e si trattava “solo” di arrampicare fino in cima. Fu meno facile del previsto, mezzo metro di neve inconsistente ricopriva insidiose e scivolose placche di liscio granito. Matteo salì tre lunghi tiri ma la vetta ancora non arrivava. Stanchezza, fame e sete si facevano sentire e come se non bastasse lo spindrift aveva iniziato a tormentarci, non ne potevamo più. La luce della luna piena invece consentiva di scalare senza accendere le frontali. Tornai avanti e questa volta, quando le corde finirono, la cima era troppo vicina per fermarmi a fare l’ennesima sosta. Gridai ai miei compagni di seguirmi, arrampicando in simultanea. Alle 23:00 sbucai sulla Cima Ovest e feci sosta sul grosso spuntone della vetta. Avevamo davanti lunghe ore di impegnativa discesa, che ci piacesse o meno dovevamo affrontarle, non potevamo fermarci. La sofferenza ci dava la giusta dimensione di ciò che stavamo vivendo. Ci spostammo leggermente a sinistra sulla cresta, poi iniziammo ad attrezzare le doppie. Alla sosta per la terzultima calata, Matteo batté talmente forte un chiodo dentro una fessura che il martello della sua picca andò in frantumi. Ecco cosa vuol dire usare costantemente l’attrezzatura al limite della tenuta per cui è progettata! Il tempo correva senza esserne padroni, l’ultima calata che ci depositò accanto ai nostri sci la facemmo alle tre di notte. Un’ora dopo arrivammo finalmente alla macchina, eravamo partiti da lì ben 23 ore prima.
Proposi di chiamare la via The dark side of the moon, perché avevamo scalato sotto la luce della luna piena, ma non c’era nulla di romantico, ciò che avevamo vissuto si rispecchiava piuttosto nel lato oscuro della luna. Ma una volta scoperto che era il titolo di una famosissima canzone (solo io potevo non conoscerla!), la ascoltai e – mi perdonino i fan dei Pink Floyd - non mi piacque, dunque serviva un’altra idea. Matteo propose Strapazzati dalla luna piena e decidemmo che era il nome giusto.
Scesi dalla Busazza era rimasto ben poco, i vestiti erano troppo strappati per essere riparati, i cavi dei nuts danneggiati e dovetti ricomprare tutto il set nuovo. Una decina di chiodi erano rimasti in parete e tutte le punte dei ramponi erano state talmente consumate dal granito che non era più possibile limarle.
A febbraio telefonai a Franz e gli proposi di ripetere la Phantom Direct alle Grandes Jorasses. Gli spiegai il mio piano: partire nel cuore della notte, scalare tutto il giorno e arrivare in cima verso mezzanotte, infine scendere con gli sci."Dopo la recente nevicata, però non c’è modo di stare dentro le 24 ore, andremo sicuramente oltre, sei pronto?" Franz rispose di sì! La via aveva avuto da poco quattro ripetizioni, favorite da un mese di alta pressione, ad inizio febbraio però era arrivata un’abbondante nevicata che aveva "rovinato" le buone condizioni; ma ero convinto fosse ancora possibile salirla, a patto di portarsi gli sci. Sarebbe stato più duro, lungo e faticoso, ma fattibile.
Vista l’abbondanza di neve fresca, sarebbe stato ideale essere in tre, per alternarci in modo più efficace a batter traccia nella neve fresca. Purtroppo Matteo non poteva liberarsi dal lavoro e Santi Padros era sul volo di ritorno dal suo viaggio nelle Montagne Rocciose Canadesi. Così Franz ed io partimmo da soli venerdì 11 febbraio alle 20.30 da Trento. Una volta arrivati al parcheggio di Planpincieux verso l’una di notte, abbiamo messo nello zaino il minimo indispensabile per poter essere leggeri. Una sola serie di friends, nuts, 6 viti, qualche chiodo, una corda singola da 50 metri, un cordino in kevlar sempre da 50 metri per le doppie, piumino, fornelletto, gas, guanti, barrette, gel, pala, sonda e ARTVA. Neanche questa volta ci portammo materiale da bivacco. O tutto o niente.
Di solito quando vado ad arrampicare sul massiccio del Monte Bianco mi sale addosso parecchia rabbia nel vedere quel circo fatto di impianti, rifugi e spit messi su vie storiche, senza il consenso dei primi salitori. Italiani e francesi, di solito rivali, hanno invece formato una squadra unita per calpestare l’etica e la storia della loro montagna simbolo. Tutte le volte che passo da quelle parti mi viene voglia di erigere una statua in memoria di Hayden Kennedy, lo schiodatore del Cerro Torre. Ma questa volta tutto ciò non ci riguardava, avremmo arrampicato in uno degli angoli più selvaggi e meno frequentati dell’intero massiccio: dopo la prima salita del 1928, la parete sud delle Grandes Jorasses conta solo una decina di salite scarse in 94 anni di storia.
Ci incamminammo alle 1:40 della notte e nessuno di noi due aveva dormito durante il pomeriggio; dunque, il deficit era già di oltre diciotto ore senza sonno. All’alba raggiungemmo il conoide, sci ai piedi. Dai nostri predecessori, avevamo appreso che il passo chiave sarebbe stato il superamento dell’enorme terminale strapiombante al primo tiro della via. Invece per nostra grande sorpresa fu sufficiente fare un passo più lungo degli altri per superare la terminale. Eravamo increduli, il passaggio chiave era stato sommerso da una decina di metri di neve accumulatasi sul conoide e non esisteva più. Ma come scoprimmo presto, quello fu l’unico vantaggio che avremmo tratto dalla nevicata. Nel frattempo Franz aveva già preso i ferri e si precipitava a scalare, bombardato dallo spindrift. Procedavamo in conserva protetta, arrivando sotto il tiro più ostico della giornata in pieno sole. Passai avanti e decisi di scalarlo direttamente nel diedro, perché le più appoggiate placche a destra erano smaltate da parecchia neve fresca. Affrontai del misto tecnico e in cima una cascata di ghiaccio verticale mi riempì le braccia di acido lattico. Poco dopo, Franz scalò il secondo passaggio difficile, lottando come un leone sul ghiaccio reso critico dal calore del sole. Gli detti nuovamente il cambio per l’ultima lunghezza prima del grande traverso, le difficoltà maggiori erano ormai alle nostre spalle. Stavo per partire quando, ancora assicurato alla sosta, improvvisamente fui investito da una grossa valanga di neve umida. Una forza violenta tentò in tutti i modi di trascinarmi giù con sé, ma il solido ancoraggio allestito da Franz resse. Quando tornò la calma, mi ritrovai appeso alla sosta capovolto a testa in giù, ma tutto intero.
Sapevamo che la valanga proveniva dal grande canale-camino sopra di noi e che solo una volta raggiunto il traverso saremo stati al sicuro. Scendere in doppia non era un’opzione, avrebbe voluto dire esporsi per molto più tempo allo stesso pericolo, dovevamo per forza salire e farlo in fretta. Impugnai le picche e scalai la cascata di ghiaccio più velocemente possibile, polpacci e polmoni erano in fiamme, ma non potevo assolutamente fermarmi. Lo feci solo quando, uscendo dal canale, attrezzai una sosta e mi abbandonai esausto appeso ad essa.
Da lì in poi ci muovemmo in conserva, prima traversando e poi salendo, con lunghissimi tiri anche da duecento metri ciascuno. Alle 16:00 facemmo mezz’ora di pausa, sciogliendo quattro litri d’acqua col fornelletto. Dinanzi a noi non avevamo più particolari difficoltà tecniche, eppure fu proprio lì che iniziò la parte più dura di tutta la salita. Annegavamo inesorabilmente nella neve profonda e a tratti dovevamo aprirci una vera e propria trincea nella parete. Avanzare richiedeva uno sforzo titanico. Quando le tenebre della notte ci avvolsero, indossammo anche i piumini. Nello zaino ormai quasi vuoto, non avevamo più alcun indumento e il nostro movimento bastava a malapena a scaldarci, ma il far così tanta fatica ci stava garantendo di non congelare. Le ore passavano, faceva sempre più freddo e i nostri corpi erano sempre più stanchi e meno capaci di produrre calore. Cinquanta metri di corda separavano la nostra infinita progressione simultanea, eravamo soli, avvolti dal silenzio e immersi nei propri pensieri. Pensieri cupi, neri come la notte più buia. La cima sembrava non arrivare mai. Ad inizio via avevo pensato che fossero stati esagerati a dichiarare 1.600 metri per lo sviluppo, di fronte a "soli" 1.100 metri di dislivello. Invece mi stavo rendendo conto che era davvero così, stavamo realmente salendo la via di misto più lunga del massiccio del Monte Bianco!
Ad un orario indefinito, stanchi e provati, sbucammo finalmente in cresta. Controllai attentamente lo stato della corda: era danneggiata, ma avrebbe tenuto fino al termine della discesa. Viti e friends invece erano inglobati nel ghiaccio e ormai in gran parte inutilizzabili. Intanto ancora non era finita, sulla cresta rocciosa verso la cima, cornici di neve dalla consistenza dello zucchero ci costrinsero a lottare anche nell’ultimo tratto. Poi alle 00:12 finalmente riuscimmo ad abbandonarci, esausti, in vetta alla Punta Walker. Non avevamo raggiunto alcun traguardo, davanti a noi si prospettava una lunga discesa, ancora più preoccupante e piena di incognite rispetto alla salita. Senza dire una parola ci avviammo verso il basso. Due dita di neve polverosa ricoprivano del ghiaccio liscio e durissimo, era come camminare sul vetro e se fossimo scivolati sarebbe finita, non c’era modo di fermarsi. Quello fu in assoluto il momento peggiore di tutta la “giornata”, i nostri ramponi, dopo ore ed ore di scalata, erano smussati e non fornivano sufficiente presa su quel terreno. Avevamo paura, tanta paura. Raggiunta una zona di neve profonda, tirammo un sospiro di sollievo e ci fermammo a fare il cambio di assetto e mettere gli sci. Quando percepimmo il rischio di congelarci i piedi, decidemmo di accantonare l’idea di fermarci a sciogliere neve col fornelletto e ci mettemmo a sciare. L’unico modo per non congelare era rimanere in costante movimento. Arrivati al Rochers Whymper attrezzammo un paio di ancoraggi per le doppie, visto che quelli usati in estate, erano sommersi dalla neve. Terminate le calate, rimettemmo gli sci, sciando legati sul ghiacciaio.
Fu quello il momento in cui le allucinazioni presero il sopravvent. Me ne accorsi quando iniziai a vedere nitidamente due alberghi ben illuminati al termine del ghiacciaio e poco dopo Franz mi indicò con insistenza una tenda fluorescente accanto a noi. Tra privazione del sonno, quota e fatica estrema eravamo arrivati al limite. Le numerose e continue allucinazioni ebbero anche lo spiacevole effetto di farci sbagliare strada e dovemmo pure rimettere le pelli e tornare in su. Era troppo, urlai al vento parole irripetibili. Con l’arrivo del nuovo giorno le allucinazioni non fecero che peggiorare. Alla fine arrivammo alla macchina solo poco prima delle 10:00. Erano passate oltre 32 ore da quando eravamo partiti da quello stesso punto, ma noi eravamo svegli da oltre 50.
n.d.r. Nell’inverno del 2022 Emanuele è stato vittima di un incidente tanto stupido quanto grave mentre si allenava per gli esami di Aspirante Guida Alpina su di una pista da sci.
Adesso, con la calma necessaria, sta cercando di venirne fuori con la stessa forza con cui è già uscito da altre brutte esperienze e noi gli auguriamo di cuore di rimettersi al meglio.
Ieri al telefono ci ha raccontato che era appena salito Punta Giordani con le stampelle per cercare di allenarsi. Poi ha aggiunto: “Sono salito con gli “impianti”, è la prima volta. Madonna … non si fa fatica per niente arrivi su che non sei neanche sudato!”
Per chi volesse dare un’occhiata al sito di Emanuele Andreozzi per vedere il curriculum alpinistico e delle gran belle foto vi invitiamo a curiosare sul suo sito.
Se volete seguirlo sui social invece ecco il contatto Instagram https://www.instagram.com/emanuele_andreozzi/
... però attenzione, nelle “stories” mette veramente della musica di m… :)
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